La dimensione dell’affettività e sessualità della persona con disabilità, in particolar modo di coloro che presentano una fragilità cognitiva e problematiche relazionali, genera ancora imbarazzo e disorientamento. Ecco alcune questioni salienti che le persone con disabilità e i famigliari si trovano ad affrontare fin dall’emergere del corpo sessuato in fase adolescenziale.
La negazione del corpo sessuato
Per introdurre un pensiero sulla sessualità del disabile cognitivo è necessario ragionare sul modo in cui viene concepito il suo corpo. Tendenzialmente, il disabile rimane rimane schiacciato e ridotto al suo corpo fisiologico, con le sue necessità assistenziali: il corpo da tenere pulito, vestire, accudire. Se questa è la rappresentazione, si capisce bene come diventi difficile pensare che quella stessa persona gravata da innumerevoli disagi psico-fisici possa fare esperienza di una funzionalità sessuale integra, con tutto il correlato in termini di pulsioni, sensazioni, spinte, desideri, immaginari in cui l’universo umano può riconoscersi. E’ in questo senso che il corpo sessuato del disabile intellettivo è negato. Si tratta di una negazione profonda, perchè il corpo non è la semplice somma di organi e funzioni, ma è espressione della soggettività e portatore di messaggi relazionali importanti: se si nega questa parte essenziale si limitano di molto le possibilità di scambio e relazione con l’altro della persona disabile, in quanto la sua stessa personalità viene amputata.
Il disabile come eterno bambino
La negazione rappresenta un meccanismo psichico di difesa verso qualcosa in grado di produrre disagio e sofferenza alla nostra vita interiore. Nel momento in cui il corpo sessuato del disabile non è riconosciuto, egli diventa un eterno bambino, non “toccato” dalla sessualità. Quando la negazione riguarda il familiare della persona con disabilità (genitore, figlio/a, fratello/sorella) la sua funzione è quella di alleviare il dolore mentale che tale questione suscita. Questo avviene perché, nei soggetti disabili, la sessualità non si esprime sempre nelle modalità e nei tempi evolutivi cui siamo abituati e, in secondo luogo, perché non c’è la giusta preparazione delle famiglie ad accogliere questa parte senza spaventarsene.
Rispetto alla manifestazione della sessualità, la componente del ritardo intellettivo e dell’handicap psichico determina difficoltà nel controllo degli impulsi e di preservazione della propria privacy. C’è da dire che il manifestarsi della sessualità di un figlio rappresenta in ogni caso una esperienza perturbativa per un genitore, in quanto questo dato si affianca all’acquisizione di maggiori spazi di autonomia personale e relazionale. L’esordio della sessualità mette a confronto il genitore con il fatto che il proprio figlio sta diventando adulto, sempre più proiettato al di fuori del sicuro perimetro familiare. Per il familiare di un adolescente disabile questo passaggio evolutivo è difficile da sostenere perchè sappiamo che il raggiungimento di una vita autonoma per una persona con disabilità, soprattutto se cognitiva e relazionale, può essere molto complicato, implicando in ogni caso bisogni assistenziali, seppur di diversa entità, regolari e continuativi.
Mi potrò fidanzare o sposare?
Domande come questa sono molto più comuni di quanto si creda, anche nell’ambito di disabilità molto gravi e complesse. Attraverso di esse le persone con handicap cercano il riconoscimento della loro dimensione sessuale ed affettiva, fatta di bisogni di vicinanza, contatto e scambi amorevoli, del desiderio di piacersi e piacere, di vivere un’intimità corporea, individualmente e in coppia. A volte i familiari eludono le risposte, incapaci di trovare una modalità di approccio adeguata. Ciò avviene perché agisce la volontà inconscia di scansare la sofferenza, in chi risponde e in chi domanda. L’argomentazione per la quale avere un fidanzato/a e sposarsi non sia obbligatorio e tante persone non disabili scelgano di non avere legami stabili non è esaustiva perché rimane il fatto che questi passaggi, oltre che esprimere delle esigenze affettive, sono radicati nel nostro immaginario socio-culturale , cui sono sensibili anche le persone con ritardo cognitivo.
Rispondere alla domanda implica la capacità di mettersi in relazione, ascoltare senza giudicare e senza farsi prendere dall’angoscia “risolutiva” (“adesso cosa faccio?”), mantenendo un atteggiamento disponibile a aperto.
Ascoltare e costruire risposte
Approcciare questo tema è difficile per un familiare, ad esso si sommano innumerevoli incombenze, preoccupazioni e aspetti complessi da gestire quotidianamente. Quando emerge la pulsione sessuale e si manifestano richieste nuove, i familiari, per imbarazzo o vergogna, spesso si chiudono nell’isolamento, con l’angoscia di trovare delle risposte da soli. Questo breve articolo non vuole proporre soluzioni o dare facili consigli, ma solo tracciare delle possibili direzioni d’approccio, ricordando che ogni situazione va considerata singolarmente.
Come già accennato, è fondamentale sapersi porre dinanzi al proprio congiunto con un atteggiamento aperto all’ascolto. Saper ascoltare, senza l’urgenza di avere la risposta o la soluzione “pronta”, è importante: se ti ascolto, significa che ti accolgo, riconosco e do valore a una parte di te nuova e che ancora non conosco. Ascoltare è dare dignità, trasmettendo il messaggio che non esistono “discorsi proibiti”, ma solo che, a volte, la risposta va costruita insieme, con un tempo magari lungo di riflessione, ponderando esperienze e possibilità. Dare risposta alle domande sulla sessualità di una persona disabile implica quindi una costruzione di risposte, che passa attraverso la relazione con l’altro. Nel concetto di “costruzione partecipata” non va dimenticato l’apporto fondamentale che può dare una consulenza specialistica, individuale o familiare.
Parlare con un professionista esperto fa sentire il familiare meno solo e, soprattutto, gli restituisce l’idea che la sua difficoltà possa essere approcciata a partire da un percorso conoscitivo e, magari, attraverso la costruzione di una progettualità di vita in cui il proprio congiunto disabile possa sentirsi protagonista e attivo costruttore, vedendo riconosciuta la sua personalità nella sua interezza e complessità.
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